sabato 24 marzo 2018

Givenchy, quando l'abito fa la diva


Quando muore un grande artefice del Novecento, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: chi prenderà il suo posto? E sarà alla sua altezza? Parlo di Hubert de Givenchy lo stilista scomparso il 10 marzo scorso. La Maison è andata avanti diretta da altri nomi di prestigio, come Joe Galliano e Riccardo Trisci, più altri tentativi di fusioni. Attualmente è diretta dalla britannica Clare Waight Keller. Il grande couturier  vi rimase a fare il direttore artistico fino al 1995. Ma è inutile ricordare che il meglio della sua produzione artistico-artigianale è già entrata nei musei dedicati alla moda e alla storia del costume. E non a caso, dato che questo grande (era alto quasi 2 metri) gentleman della moda aveva una sua filosofia: «È l’abito che deve seguire le linee del corpo, non il corpo assecondare la forma del vestito». Il gusto francese, caratterizzato da una manifattura dedita alla perfezione ed alla raffinatezza, incontra le mani di un uomo nato da famiglia aristocratica di religione protestante nel 1927 a Bouvais, orfano di padre e cresciuto da sempre tra i costumi d’epoca collezionati dal nonno, un celebre fotografo. Contro il volere della famiglia si avvicinò al mondo della moda, specie dopo aver frequentato “L'Ecole Nationale des Beaux Arts” a Parigi ed essersi avvicinato all'atelier di Cristobal Balenciaga del quale era fervente ammiratore. Dopo il 1968 ne ereditò per l'appunto la clientela, incorporandola nel suo atelier che andava già a gonfie vele. Dalla loro collaborazione nacquero gli abiti a “palloncino”.



«Gli abiti di Givenchy sono gli unici nei quali mi sento me stessa. Lui è più di un designer, è un creatore di personalità» diceva Audrey Hepburn del suo couturier preferito, le cui creazioni (91 abiti, 17 dipinti, bozzetti, foto) sono pure stati in mostra fino al gennaio 2015 nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. In scena tutte le più significative “mises” realizzate dal geniale stilista francese. Come l'abito nero lungo appena scivolato indossato da Audrey Hepburn in "Colazione da Tiffany" con un motivo circolare in perle che quasi copre le spalle di Audrey (aveva il complesso delle scapole sporgenti) nella scena della celebre passeggiata sulla 5th Avenue a NY davanti alla vetrina della famosa gioielleria, mentre è intenta a mangiare una brioche.

Cappottino arancio per Audrey in "Colazione da Tiffany"

Givenchy è stato il couturier che per primo ha saputo creare una fortunata simbiosi stilista-diva. Il tubino nero di Audrey (battuto a cifre considerevoli nell'asta di Christie's ) mentre fuma al party con il lungo bocchino, è già un'icona intramontabile e non solo una locandina filmica. Idem l'abito nero più corto un po' svasato (il “little black dress”) con una bordatura in fondo - “mise” completata di largo cappello a cloche abbellito da un nastro di seta e occhiali, quando lei fischia per chiamare un taxi. Non è un caso che la Guerlain Profumi abbia prodotto in tempi recenti una fragranza dal titolo "La petite robe noire", in omaggio al suo stile sobrio e raffinato. 

Abito corto con cappello a cloche in "Colazione da Tiffany"

E chi non ricorda la scena dell’ingresso al ballo in "Sabrina" di Billy Wilder? La giovane si appresta al gran ballo di Cenerentola facendo la sua apparizione nella ricca casa dei Larrabee indossando l'abito da sera bianco di organza, con inserti di motivi floreali in seta nera impreziositi da perline nere, ricamati sul corsetto e lungo lo strascico. Il design semplice, la scollatura senza spalline, l'assenza di gioielli, riescono a far risaltare Sabrina-Audrey nel suo aspetto fresco e giovanile in mezzo agli altri invitati severi e banali. Il taglio dell'abito è molto innovativo: è più corto sul davanti mostrando le caviglie e le scarpe dal tacco basso. La grande amicizia fra Audrey e Hubert de Givenchy nacque per caso. 
Abito di "Sabrina"

Lei era agli esordi della sua carriera  durante la lavorazione di "Sabrina" e si fece annunciare per incontrarlo. Ma ecco l’equivoco.  “Credevo fosse un'altra Hepburn, Katharine, di cui ero fan. A quel tempo Audrey non era ancora molto conosciuta a Parigi" racconta lo stilista nelle interviste. “Mi chiese di disegnarle il guardaroba per Sabrina, io ero  occupato a metà collezione, ma le mostrai alcuni modelli che sembravano tagliati per lei”.  Fu subito sodalizio creativo. Da allora la loro solida amicizia durò fino alla morte dell'attrice e il nome di Hubert de Givenchy compare nei crediti di tanti altri suoi film: “Arianna”, “Cenerentola a Parigi” (un film ambientato proprio sul mondo della moda e della fotografia)  “Sciarada”, “My Fair Lady", "Insieme a Parigi", “Come rubare un milione di dollari”, ciò che favorì l'espansione e diffusione della sua griffe nel mercato americano. 
Abito rosso in "Funny Face" (Cenerentola a Parigi)

Un'amicizia fraterna fatta di stima e fiducia reciproca. Per Givenchy  "Audré" (così la chiamano i francesi) era considerata una “sorella”. Del resto divenne il suo sarto personale anche nella vita privata, grazie al suo stile sobrio, pratico e veloce. Precursore del prêt-à-porter di lusso, fin da giovanissimo creò nell'atelier di Elsa Schiaparelli (dove lavorò per 4 anni), i  famosi "separati" multifunzionali, una linea di coordinati blusa-gonna-giacca e pantaloni che i clienti potevano accessoriare a seconda del loro gusto e  umore.  
Il suo talento fece subito breccia fin dalla prima collezione del 1952, dove appena 24enne, venne notato con interesse dalla direttrice di "Elle" e  da Carmel Snow, gran sacerdotessa di " Harper’s Bazaar”. Un défilé tutto in bianco e nero dove si distinguono le modelle amiche sue tra le quali la stupenda Bettina Graziani che darà il suo nome a un pezzo destinato a diventare un capo di culto: la blusa Bettina. Nasce ed evolve con lui anche la figura della supermodel divistica e Bettina (chiamata così, senza il cognome) ne fu un esempio significativo. Lei fu anche press-agent per la Maison Givenchy.  
Blusa Bettina

Deborah Kerr, Juliette Gréco,Lauren Bacall, Elizabeth Taylor, Jeanne Moreau, Jean Seberg, Marlène Dietrich, Greta Garbo, Marella Agnelli figurano nel gotha della sua clientela. Ma soprattutto creò tutto il guardaroba per la visita ufficiale di Jacqueline Kennedy in Francia nel 1961 e confezionò l’abito verde smeraldo con bolero indossato da Grace Kelly durante un viaggio a Washington.
Nelle ultime interviste rimpiange il tempo in cui le mannequin erano eleganti ma senza ricorrere ad un  glamour chiassoso e le sue clienti si vestivano con cura anche per recarsi in luoghi sperduti.

Abito verde smeraldo con bolero per Grace Kelly
Giusto il tempo, prima di andarsene, di avere un ultimo rammarico: quello di non aver saputo identificare un discepolo a cui trasmettere il suo savoir-faire. E quello di aver prolungato la sua vita fino a 91 anni, catapultato in un'epoca dove l'eleganza non è più una virtù. "Ma ora l'eleganza è scomparsa. Niente sta bene, niente sta male, tutto è qualunque cosa». «Oggi – aggiunge – sembra che i creatori non cerchino di rendere bella la donna, ma piuttosto il contrario» ."Vedo in giro abiti con tessuti di scarsa qualità e mi dispiace. Mi sembrano creazioni senza vita."

Abito da cerimonia per Jackie Kennedy qui con Charles De Gaulle

Ma poi, da vero signore, quasi a pentirsene,  aggiunse che in fondo è già stata una grande fortuna aver attraversato un tempo nel quale la grazia, lo stile, l'eleganza e il talento venivano riconosciuti e apprezzati. La sua ultima sfilata si tenne l’11 luglio 1995 a Parigi. Il quotidiano "Le Figaro" sottolinea che “le Grand Hubert” non ha trovato il suo posto nella nuova era, quella dei "bulldozer industriali”. Ma forse è anche un privilegio.

domenica 4 marzo 2018

Fabrizio De André, luci ed ombre



Il biopic  "Principe libero" su Fabrizio De André in onda sulla RAI ha avuto numerosi strascichi polemici per aver messo come protagonista un attore (Luca Marinelli) con spiccato accento romanesco invece che ligure. Molti genovesi non hanno gradito e personalmente sono d'accordo con loro. Va ricordato che Genova è sempre presente nelle canzoni di Fabrizio ("La città vecchia", "Via Del Campo", "Crêuza de mä ", "Dolcenera" sull'alluvione del 1970, "Megu Megùn", e perfino la piccola stazioncina di Sant'Ilario di Nervi in "Bocca di Rosa"). E che molto repertorio "etnico" del cantautore è stato cantato in antico dialetto genovese.  Così come è stato considerato uno sgarbo non aver fatto terminare la sua esecuzione dal vivo di "Bocca di rosa" mentre scorrevano i titoli di coda troncati dalla Rai, anche questi. Peccato inoltre, non aver potuto ascoltare nel corso delle due puntate una canzone intensamente poetica come "Per i tuoi larghi occhi", dedicata a Maritza una donna slava assai bella ma di facili costumi, della quale, pare, si fosse innamorato - canzone la cui prima strofa è stato appena letta su un foglietto da Luca Marinelli (il De André nella finzione), ma non cantata. Inoltre nella fiction si è insistito troppo sul suo vizio del bere, e poco sulla parte creativa  della sua vita. 



Altre cose vale la pena di scandagliare su questo cantautore da molti considerato "il più grande". Innanzitutto è davvero così?
Il personaggio è certamente ricco di fascino e di carisma e ha in sé qualcosa di non facilmente  indefinibile. Il fatto che non si esponesse affatto ai media e in particolare alla tv, ne ha prolungato senz'altro l'aura. Era di famiglia assai facoltosa (suo padre era un dirigente dell'Eridania), abitava in un signorile palazzo liberty fronte mare di proprietà della famiglia in Corso Italia, il lungomare che si snoda dalla Foce fino a Boccadasse), ma militò nelle file dell'anarchismo storico di Carrara frequentandone i circoli. Bazzicava  tanto gli ambienti della Genova bene, quanto il sottoproletariato dei "caruggi". Non ultimi anche i "travestiti" di Via Del Campo, vicolo dove esiste da qualche tempo un negozio-museo dedicato a lui. Non sfugge però il tentativo da parte di quei media che tanto temeva e detestava, di farne un'autentica agiografia, quando in realtà è un artista fatto di luci ed ombre, come tanti del resto. 
Francesco De Gregori che fece collaborazioni con lui lo disse in alcune interviste, come pure confermò il suo carattere burrascoso e difficile aggravato dal fatto che fece uso e abuso di alcolici. Famosa fu una sua rissa in una discoteca genovese in voga in quegli anni "Lo Psichedelic" nella quale spaccò gli arredi interni. L'indomani fu in prima pagina sul quotidiano ligure "Il Secolo XIX".
Lo stile di vita da eterno maudit, una sorta di Cecco Angiolieri moderno (mise in musica - guarda caso - "S'i fossi foco" tratta dal sonetto di  Cecco,  e "La Ballata degli impiccati", ispirato al "Bal des Pendus" di François Villon, anche lui pecora nera della poesia) non faceva che accrescere la sua leggenda.

"De André - ha detto De Gregori ai microfoni di START, Radiouno Rai - si è circondato di collaborazioni, quindi ciò che è ascrivibile direttamente a lui non è la gran parte del suo lavoro. Questo non gli toglie nulla, perché se non avesse avuto quell’autorevolezza insita nelle sue corde vocali la musica italiana sarebbe molto, molto più povera". Aggiunge: "Per me De André resta una grande voce narrante. Ma a volte si sentono dire cose iperboliche. Credo che questo non faccia bene né a lui né alla gente che deve capire e ascoltare. E credo che non sarebbe piaciuto neanche a Faber".


Sul frutto di collaborazioni più allargate spesso attribuite solo a lui in esclusiva è senz'altro vero. La canzone "Fila la lana", ballata medievale di Robert Marcy ("File la laine") non compaiono crediti e gli viene attribuita in esclusiva. In questo caso è doveroso parlare di plagio. Ma ciò accadeva spesso e volentieri nei primi pionieristici anni "anni del vinile", e quel che ieri si poteva fare (copiare e attribuire a sé) , oggi con le nuove leggi del mercato discografico sarebbe impossibile. Va inoltre detto che nella Karim, casa discografica per cui incideva, suo padre Giuseppe aveva delle quote.

Fabrizio e il poeta anarchico Riccardo Mannerini ai tempi della loro collaborazione

I rapporti tra lui e uno dei suoi liricisti, l'anarchico Riccardo Mannerini (foto sopra), altro personaggio leggendario della Genova bohémienne morto suicida, che compare anche nella fiction con occhiali scuri per coprire la cecità, non furono sempre facili dato che i due erano temperamenti "caratteriali". Con l'anarchico reso cieco a causa di un incidente su una motonave che ebbe una fuoriuscita di vapore caldissimo compromettendone la retina degli occhi, Fabrizio collaborò al LP "Tutti morimmo a stento" che resta ancor oggi un ottimo lavoro, e in particolare al pezzo "Il cantico dei drogati". In questa raccolta c'è  pure "Inverno", una struggente ballata lenta sulla fine dei sentimenti inserita in un paesaggio invernale.   Ma collaborò anche al LP "Senza orario e senza bandiera" dei New Trolls, altra band leggendaria genovese. In ogni caso dopo una grande amicizia e sodalizio tra i due ci fu un brusco distacco definitivo, la cui causa non ci è dato di sapere. Anche qui si vociferava che Fabrizio non pagasse i "diritti" al povero Mannerini, per il suo apporto. La sua aria svagata di eterno"enfant gâté" molto concentrato su sé stesso, gli impediva di preoccuparsi troppo degli altri dei quali pure aveva bisogno.
Ma andiamo avanti con il repertorio musicale. La "Canzone dell'Amore perduto" è interamente costruita sull'adagio di Georg Philipp Telemann "Concerto in Re maggiore per tromba, archi e continuo", fra i massimi esponenti della musica barocca.  Sia l'incipit iniziale che  il modulo musicale provengono da lì. Ma qui, chiaramente si tratta di musica classica e nessuno può rivendicarne "le royalties".
Di converso invece si dice che Georges Brassens fosse molto contento della traduzione fatta da De André su "Il Gorilla", canzone interamente del cantautore francese, a cui De André si è ispirato in gioventù quale "maestro", specie nel repertorio dei primi anni sessanta. "La città vecchia" ad esempio, deve molto, per atmosfere e contenuti, a "Le Bistrot" di Brassens. "Il Testamento" comparso nel lontano 1962 quando ancora si firmava Fabrizio (senza cognome) ,  è ispirato al "Le Moribond" di Brel.
"Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" si snoda su una ballata medievale ripescata dalla cantautrice provenzale Anne Sylvestre (non compare nei crediti del disco) e su liriche dell'amico Paolo Villaggio.
Veniamo a "Via del Campo", canzone registrata alla SIAE da Enzo Jannacci. La musica di "Via del Campo" è attribuita ad Enzo Jannacci in quanto è l'aria di una sua canzone del 1965 "La mia morosa la va alla fonte", che faceva parte di uno spettacolo teatrale e che Jannacci incluse successivamente nell'album Vengo anch'io. No, tu no. Sul vinile, nell'etichetta è riportata la scritta: «Da una musica del '500 (XVI secolo) tratta da una ricerca di Dario Fo». In realtà Fo-Jannacci la scrissero insieme. Forse credendo si trattasse di  un'aria del '500 De André la fece sua con altre parole, quelle e dedicate alla prostituta del caruggio genovese. Si raggiunse alla fine dopo le rimostranze jannacciane, un concordato: testo di Fabrizio De Andrè su musica di Enzo Jannacci.
Ho ascoltato "La mia morosa la va alla fonte" in originale. E' probabile che se fosse rimasta a Jannacci, non avrebbe ottenuto il successo del brano riadattato da De André. Ma possiamo dire che anche questa fu una...manchevolezza da parte del mitico Fabrizio?

Si scatenano sul web le cacce al plagio e su you tube è possibile rintracciare una "Summer 68" dei Pink Floyd che sinceramente è molto simile al "Fiume Sand Creek". Più lenta la prima, più sostenuta nel ritmo la seconda di De André. 

La sottoscritta scrisse tutte queste precisazioni  puntuali e verificabili in un forum musicale on line, prendendosi un mucchio di insulti dai fan del Faber (come lo chiamava affettuosamente  il suo amico Paolo Villaggio).  Non me ne dolgo. Quando  una leggenda prende il volo la gente ha bisogno di crederci fino in fondo e il mito è sempre  più forte della verità.
Ecco perché credo che la lotta governativa contro le cosiddette "fake news" sia destinata all'insuccesso clamoroso.

In Sardegna con Dori Ghezzi e la piccola Luvi nella masseria dell'Agnata

Per tornare a De André, meritava davvero quest'aura che lo attorniava e lo attornia a tutt'oggi? 
Risposta: i miti non si meritano, vivono di vita propria e la nostra è un'epoca fatta di mitologie.  Forse ha ragione Mogol che alla sua morte, pur lodandone i pregi tra i quali una voce profonda ed espressiva rimasta inalterata nonostante il tabagismo disse: "Ha inoltre avuto la fortuna di avere una consorte favolosa".  E ora Dori Ghezzi con la quale divise il drammatico rapimento da parte dell'Anonima Sequestri sarda, così come la seconda parte della sua vita in Sardegna nella masseria dell'Agnata, mantiene in piedi questa soprendente  fabbrica del mito che sta funzionando a meraviglia -  un modo per non perdere l'uomo tanto amato.



Ma ha anche qualche ragione De Gregori quando lascia comprendere nelle sue dichiarazioni che è stato un ottimo organizzatore del lavoro altrui. 

Fabrizo De André menestrello anarco-individualista alto-borghese che non si esponeva troppo ai media ed era terrorizzato dai concerti dal vivo e dalla presenza del pubblico (concerti ne fece pochi) è riuscito in un altro prodigioso intento: imporre il Fascino discreto della Borghesia in piena epoca di contestatori marxisti, di rivoluzionari dalle barbe folte e di  eskimi, sempre in tumulto, ecc. Non è poco. Nonostante le collaborazioni molteplici delle quali si è avvalso e che hanno impreziosito il suo lavoro (dalla PFM e  Mauro Pagani,  da Mannerini,  ai New Trolls, al chitarrista classico Vittorio Centanaro coautore di "La guerra di Piero", Massimo Bubola, Fernanda Pivano per l'Antologia di Spoon River, il citato  De Gregori, Ivano Fossati per "Anime Salve",  ecc.), alla fine è pur sempre lui che prevale un po' come un divo cinematografico: viso segnato,  ciuffo spettinato, strabismo nello sguardo, sigaretta all'angolo della bocca, voce  profonda e inconfondibile.
"L'Unico e la sua proprietà", testo di Max Stirner  che fece parte delle sue letture di culto, prevalse decisamente  su Marx anche nella vita privata. 
Morì a 59 anni nel 1999 per un carcinoma al polmone dovuto all'eccesso di fumo e certamente ad una vita "senza orario e senza bandiera". Non poté vedere il nuovo secolo e di questo è assai probabile che ne sarebbe stato contento.

Quando la morte mi chiamerà
forse qualcuno protesterà
dopo aver letto nel testamento
quel che gli lascio in eredità...
Non maleditemi non serve a niente
tanto all'inferno ci sarò già...

lunedì 6 marzo 2017

La rivincita del film scartato



La scena l'avete vista tutti la notte degli Oscar, che contrariamente a quanto si crede, ormai per i telespettatori americani è  diventato negli anni, un rito stracco e autoreferenziale. Warren Beatty in diretta che annuncia la vittoria di "La La Land", poi l'imbarazzata correzione in diretta. E l'Academy Award per il miglior film, come è noto, è andato a "Moonlight",  che con la sua storia dell' afroamericano gay è più "politically correct". Qualcuno è arrivato perfino a dichiararlo come la statuetta lanciata contro Trump e il trumpismo. E Hollywood, come è noto, è la roccaforte "liberal" del politicamente corretto. 
Al musical del giovane Damien Chazelle 6 Oscar.
"La La Land"  vince dunque l’Oscar come migliore regia, facendo entrare Chazelle nel guinness dei primati: con i suoi 31 anni è il più giovane regista a vedersi assegnato questo premio. Migliore attrice ad una commossa Emma Stone. Miglior fotografia, miglior sceneggiatura, miglior colonna sonora, miglior canzone originale, ma non si aggiudica quello di miglior film. L’errore dello scambio delle buste durante la scorsa Notte degli Oscar che ha catapultato il verdetto definitivo a favore di "Moonlight", ha generato infiniti commenti ironici, parodie, polemiche, dietrologie e perfino inchieste sulla questione.


LA LA LAND, titolo che gioca sulla sigla LA (Los Angeles) e sul paese del La-la (cioè  delle cose impossibili), è anche un sorprendente musical moderno che racconta un’intensa e burrascosa storia d’amore tra una giovane aspirante attrice e un musicista jazz che si sono appena trasferiti a Los Angeles in cerca di fortuna. Mia (Emma Stone) è un’aspirante attrice che, tra un provino e l’altro, si mantiene servendo cappuccini al bar alle star del cinema. Sebastian (Ryan Gosling), è un musicista jazz che sbarca il lunario suonando nei piano bar. Dopo alcuni incontri-scontri casuali, fra Mia e Sebastian esplode una grande passione nutrita dalla condivisione di aspirazioni comuni, da sogni intrecciati e da una complicità fatta di incoraggiamento e sostegno reciproco. Ma quando iniziano ad arrivare i primi successi , i due si dovranno confrontare con delle scelte che metteranno in discussione il loro rapporto. La minaccia più grande sarà rappresentata proprio dai sogni che condividono e dalle loro ambizioni professionali che li uniscono all'inizio, ma li separano alla fine. Alla fine, ciascuno realizzerà il proprio sogno, ma i due saranno stelle binarie: destinate a splendere separatamente e in ambiti distinti.

Il regista e sceneggiatore rivelazione Damien Chazelle ha scritto e diretto un film che è una lettera d’amore alla magia della vecchia Hollywood d'antan raccontata da un punto di vista giovane, fresco e contemporaneo. Stupisce vedere già la sapienza e la perizia di un giovane regista, nella sua capacità di assemblare pezzi della storia di Hollywood e dei classici del musicali in modo creativo. E i citazionismi e i dotti rimandi cinéphiles, scorrono con magica fluidità. Con ciò non bisogna affatto credere che Chazelle si limiti a realizzare un film nostalgico o meramente  citazionista, perché in realtà sa come andare ben oltre i parametri del classico e lo dichiara sin dallo straordinario piano sequenza iniziale (la scena dell'ingorgo automobilistico sul ponte dove tutti danzano e saltano sui tetti delle automobili).

Ryan Gosling ed Emma Stone sono alla loro terza collaborazione: belli, simpatici, affiatati, teneramente goffi nella danza e nel canto. Forse perché per girare un musical, oggi, hai bisogno di vere star professioniste, o forse perché Damien Chazelle sapeva che era proprio di quella goffaggine giovanile e finto-dilettantesca che aveva bisogno per raccontare la sua storia per renderla credibile.
Toh, chi si rivede! - esclama lo spettatore sospettoso -   il musical, un genere considerato "disimpegnato" e tuttavia fortemente "impegnativo" e costoso: coreografiche, costumi, danze, canti.

L'attento spettatore un po' cinefilo riconoscerà le scarpe  bianche e blu di Gene Kelly in Ryan Gosling ormai specializzato nel ruolo del romantico sognatore (vedi "Le pagine della nostra vita"), qualcosa di "Un americano a Parigi" sul ballo lungo Senna. Emma Stone coi palloncini colorati in mano sotto l'Arc de Triomphe come Audrey Hepburn in Funny Face (Cenerentola a Parigi) di Stanley Donen, il Planetario di "Gioventù Bruciata" di Nicholas Ray, la giungla di  ombrelli coloratissimi di Jacques Démy in "Les Parapluies de Cherbourg"  e tanti altri riferimenti cinematografici ormai storici e non solo. Anche i rimandi musicali sono molteplici. Nella musica Jazz (Miles Davis, Count Basie, Sidney Bechet, Charlie Parker e Charlie Mingus). 
Nella musica pop, il gruppo norvegese degli A-Ha con la celeberrima "Take on me".

Funny Face di Stanley Donen

I due innamorati levitano, ascendono e volano tra le stelle come  le esili figurine di Chagall mentre si ascolta la bellissima canzone dedicata a Los Angels "The City of Stars".
Una storia d'amore, di sogni e delusioni, di follie e di crescita; una storia che, come quei vertiginosi zoom all'indietro che arrivano fino allo spazio, ambisce a raccontare due giovani personaggi, una città, la musica, il cinema, l'Arte, l'Immaginario. Dove non manca anche un pizzico nostalgia, ma sarebbe riduttivo definirlo solo un film nostalgico.

Una cosa non è stata ancora scritta... In questo film rifà capolino il Sogno Americano che la lunga crisi  economica tuttora in corso, sembrava aver frantumato e annientato. E forse forse è proprio l'American Dream a lungo accarezzato, vagheggiato e inseguito dai due giovani protagonisti, il vero filo conduttore di tutto il film.

Fu vera gaffe quella della notte degli Oscar? Mah... curiosamente è una gaffe che ha favorito il botteghino degli incassi per il  film del giovane Chazelle.


And the winner is... come al solito al pubblico, l'ardua sentenza.

sabato 21 gennaio 2017

Riti di passaggio in Gennaio


Il nome "Gennaio" deriva dal dio latino-romano Giano (Ianuarius), preposto alle porte, ai ponti, e ad ogni forma di mutamento simbolico e attraversamento: in questo, Gennaio/Ianuarius era un po' la chiave di volta, aprendo le porte al nuovo anno.


Apre il calendario gregoriano per inaugurare una nuova fase della vita, con giornate i cui cieli di Lombardia, tanto decantati dal Manzoni, sono, astronomicamente parlando, i più belli dell'anno: puliti, tersi di uno stupefacente blu cobalto, con i suoi laghi mossi che sembrano riflettere le azzurrità celesti, con tramonti mai così incendiati. Le giornate sono più lunghe e luminose, proprio quando sembrava che il buio, la notte, le pesanti simbologie autunnali e mortuarie, avessero coperto tutto. La magia della Natura inverte l'abisso e di nuovo la luce, come è giusto, riprende il suo posto.
Quando ancora la nostra "civiltà" si lasciava ammaestrare e si leggeva ogni cosa in chiave mitica, la simbologia di Gennaio era insieme una speranza e un insegnamento: quanto più nera e profonda poteva essere la notte, tanto più la luce avrebbe trionfato ancora. E la vita greve e pesante si fa via via più lieve nella luce tersa del solstizio che avanza.

Non si può allora non estrapolare dal nostro vissuto qualche poesia, o filastrocca  che è spiritualmente terapeutica ed evocativa per antonomasia:


Gennaio
Nevica: l'aria brulica di bianco;
la terra è bianca, neve sopra neve;
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco,
cade del bianco con un tonfo lieve.
E le ventate soffiano di schianto
e per le vie mulina la bufera;
passano bimbi; un balbettio di pianto;
passa una madre; passa una preghiera!
(Giovanni Pascoli)
Falò per S.Antonio Abate  a Varese

In Gennaio si propiziano arcaici e antichi riti agricoli un tempo pagani,  opportunamente assorbiti dalla Cristianità come i falò di San Antonio Abate,  protettore dei contadini e degli animali agricoli che cade martedi 17 gennaio. Abbiamo visto in quella data, quei   rioni con chiese intitolate a detto santo (Chiesa del rione di La  Motta a Varese e cappelletta di  Lissago-Mustonate, un suo paesello campagnolo che si affaccia sul lago), grandi  falò che bruciano davanti ai sagrati delle chiese intitolate al santo. Fuochi che squarciano le tenebre nel bel mezzo del gelido inverno.  Detta tradizione di Sant'Antonio Abate è molto sentita anche al Sud, per tutta Italia e nelle Isole, e i loro falò si fanno con sterpi di vite per propiziare l'abbondanza e i buoni raccolti. Se il falò non si accende, per gli agricoltori è un brutto presagio. 

Il fuoco purificatore, ci rimanda al rito di morte-rinascita. Le ceneri che si disperdono nel vento di tramontana renderanno fertile il terreno. I terreni del resto, in questo mese vengono arieggiati, rimossi e ripuliti da vecchie stoppie. "Si porta avanti", la brava gente di campagna - come si dice delle mie parti -   gente che non si fa mai cogliere in fallo dalle stagioni e mesi,  e sempre rispetta il lunario e le sue fasi. Gli animali domestici e da cortile,  vengono benedetti dal prevosto, in una simpatica benevola processione; come “benedetto” era considerato il lavoro dei campi che non poteva svolgersi senza il loro aiuto. E la tradizione perdura tuttora. 
Benedizione degli animali agricoli
In alcune località della bassa  padana sopravvive la tradizione della Giöbia, la vecchia strega, e permane ancor oggi il simbolo dell’inverno da scacciare mediante un enorme falò per far sparire i mali, affinché possa nascere e germogliare rigogliosamente la nuova stagione con i suoi doni di opulenza. E’ un altro rito propiziatorio di origini agricole molto sentito. In particolare a Busto Arsizio, Legnano, Turbigo, nel pavese e  nella bassa lodigiana, dove la Giöbia è impersonata da una vecchia fatta di paglia, di stracci, di pezze e di  altro materiale combustibile, rivestita di vecchi abiti dismessi, che viene issata su cataste di legna e bruciata in piazza l’ultimo giovedì di gennaio. Forse il suo nome trae per l’appunto origine da Giovia (giovedi). Ma ci sono altre versioni etimologiche, altri modi di chiamare "la vecchia"  e altre varianti della vecchia strega da bruciare,  a seconda delle località.


Quel che è certo, rappresenta la brutta stagione invernale da bruciare, col fuoco che crepita e scintilla portando con sé ogni elemento negativo: le malattie, i fardelli della vita ed altro. Era ed è una “festa” pubblica, collettiva, nella quale si mangiavano piatti tradizionali costituiti da risotto con luganega (salsiccia) e polenta con i “brüscitt” (l'umido che si fa con la carne trita) ; poi seguiva il “falò”.
Falò de la Gioeubia

Nelle scuole elementari del basso varesotto e dell'alto milanese questo rito del fuoco  viene accompagnato dalle grida festanti dei bambini, con chiacchiere e frittelle da gustare. Una dolce anticipazione del non lontano Carnevale. 
 E per concludere il mese,ecco  la Merla, e i suoi ultimi tre giorni  più freddi dell'anno magici, taglienti e chiari, con le sue tramontane ululanti, così evocative di leggende del Grande Nord. Secondo una delle tante, i merli, allora bianchi, si dovettero rifugiare all'interno dei comignoli a causa del grande freddo, diventando tutti neri. Poi, dopo molti giorni, credettero che Gennaio fosse passato e  allora sbucarono fuori canzonandolo, ma lui si vendicò e scatenò bufere di neve, vento, gelo, imbiancandoli ancora. E la magia si rinnova ad ogni gennaio di ogni anno.



giovedì 12 gennaio 2017

Elleboro, fiore d'inverno




Tra i pochi fiori di questo rigido periodo invernale va segnalato per la delicatezza della candida corolla pendula, l'Elleboro, fiore da cinque sepali appartenente alla famiglia delle ranuncolacee. Ce ne sono di diverse specie: l'Helleborus niger ( o rosa di Natale), l'Helleborus viridis (foto in basso)  (= elleboro verde) , l'Helleborus foetidus(="cavolo di lupo"), ecc.

L’elleboro era conosciuto e utilizzato dagli antichi per le sue proprietà medicinali. Nonostante conoscessero la reale pericolosità della pianta, si credeva che il decotto delle radici fosse un valido rimedio alla pazzia.  Un esempio di tale credenza lo si riscontra nel poeta Orazio il quale consigliava di recarsi sull’isola di Anticitera (isola greca tra Creta e Cerigo), luogo in cui cresceva l’elleboro, per curare le turbe causate dalla pazzia. Si narra inoltre, secondo un'antica leggenda, che con la medicina ricavata dall’elleboro, furono guarite dalla pazzia le figlie di Preto, re di Argo, che credevano di essere state tramutate in vacche.



Essendo un fiore che sboccia nel periodo decembrino (ma la sua fioritura si protrae fino ai primi di marzo), è ovviamente legato alla tradizione Cristiana. Narra una leggenda che una pastorella vagasse per i campi in cerca di un dono da offrire a Gesù Bambino ma, essendo stato un inverno molto freddo, non riuscì a trovare neanche un fiore da offrire. Disperata per l’accaduto, iniziò a piangere ed il suo pianto attirò l’attenzione di un angelo che si trovava di passaggio. L'angelo si pose vicino alla bambina e tolse un po’ di neve dalla strada... Immediatamente comparvero alcune particolarissime rose bianche dalla corolla semplice che la bimba raccolse per portarle in dono al Bambin Gesù.

Nei boschi e nelle brughiere della provincie del Nord Italia, vi sarà certamente capitato di imbattervi nella specie "elleboro verde", fiore da sottobosco i cui cinque sepali hanno quasi lo stesso colore delle foglie e degli steli (leggermente più chiara la corolla, rispetto alle foglie), fino a quasi creare un singolare mimetismo. Non provate a raccoglierlo e trapiantarlo, perché non si adatterebbe facilmente al di fuori del suo habitat boschivo. L'Elleboro verde perdura fino alle porte della primavera.

Elleboro verde

Essendo un fiore invernale viene chiamato dagli inglesi Christmas Flower, considerato il fiore natalizio per eccellenza. In Francia viene chiamato Rose de Nöel; del resto pure da noi in Italia è conosciuto anche come "Rosa di Natale". Lo troverete esposto nelle vetrine dei fioristi in questo periodo, in suggestive composizioni floreali natalizie: vischio, bacche rosse ed ed elleboro, stelle di Natale bianche, rosse o rosa con ellebori, pungitopo e/o agrifoglio ed elleboro, e via con la fantasia floreale.





domenica 11 dicembre 2016

Escher ed Eschermania



Vale la pena di recarsi a vedere a Palazzo Reale a Milano la mostra di Mauritz Cornelis Escher prima che abbia termine il 22 gennaio 2017. E le vacanze natalizie sono l'ideale per farlo.  Molto successo ha ottenuto  questa esposizione aperta a scolaresche d'ogni ordine e grado che possono fruire nel percorso espositivo, di una singolare esperienza percettiva.  Oltre 200 opere suddivise in sei sezioni. La mostra è promossa dal Comune di MI e prodotta da Arthemisia Group e Gruppo 24 ore in collaborazione con la M.C. Escher Foundation. 
Si tratta in prevalenza di xilografie, litografie e mezzetinte che tendono a presentare costruzioni impossibili, esplorazioni dell'infinito, tassellature del piano e dello spazio e motivi a geometrie interconnesse che cambiano gradualmente in forme via via differenti. Siamo agli inganni visivi del concavo che sembra convesso e del convesso che sembra concavo. Dei pesci che sembrano sagome di uccelli e viceversa.  L'artista seguì infatti i dettami della Psicologia della Gestalt ed era molto attento all'ambiguità delle forme e delle strutture.  Le opere di Escher sono molto amate dagli scienziati, logici, matematici e fisici che apprezzano il suo uso razionale di poliedri, distorsioni geometriche ed interpretazioni originali di concetti appartenenti alla scienza, sovente per ottenere effetti paradossali. In tutte le sue opere non vi è solo la fredda logica delle scienze esatte, ma mondi naturali con panorami, scorci, piante ed animali reali o immaginari intervengono ad arricchire i suoi lavori in un'ottica straordinariamente globale. Il mondo di Escher è sospeso  in bilico fra l'onirico- visionario, e il logico e geometrico. Per questo risulta ancor oggi che siamo smaliziati agli "effetti speciali", così originale e singolare. Anche nella natura e nel paesaggio sembra cogliere simmetria, geometria (è stato grande appassionato in cristallografia), prospettive ingannevoli, sfide alla legge di gravità, stratificazioni minerarie stupefacenti.



Escher  nacque a Leeuwarden, in Olanda il 17 giugno 1898 e sempre in Olanda morì nel 1972. Nel 1903 la famiglia si trasferì a Arnhem, dove il giovane Maurits ricevette la prima educazione nelle scuole elementari locali; «Mauk» (come era affettuosamente soprannominato in famiglia), sebbene eccellesse nel disegno, prendeva voti generalmente bassi, tanto che dovette ripetere il secondo anno. Sempre ad Arnhem, inoltre, prese lezioni di carpenteria e pianoforte fino all'età di tredici anni.

Nel 1918, Escher passò all'università tecnica di Delft, che abbandonò nel 1919 in favore della Scuola di Architettura e Arti Decorative di Haarlem, dove apprese i rudimenti dell'intaglio. Intuendone il talento artistico, il padre incanalò le inclinazioni del figlio nello studio di architettura. Ma nello Lo stesso anno, infatti, egli incontrò il grafico Samuel Jessurun de Mesquita, che lo persuase ad iscriversi presso i suoi corsi di disegno; l'entusiastico sostegno di quest'ultimo fu fondamentale per il suo sviluppo come artista grafico, tanto che anche terminati gli studi Escher sarà legato al suo maestro - che egli riterrà l'unico - da un saldo vincolo d'affetto.

Fondamentali furono i suoi viaggi di formazione in Italia. Così gli occhi del grande artista si posarono tanto sulle meraviglie dell'arte offerte dal nostro paese (è il caso di "Tetti di Siena" del 1922) e "Notturno Romano: il Colosseo" del '34) quanto  il suo paesaggio naturale con puntigliosa attenzione per le architetture marinaresche raggruppate sui promontori come le incisioni dedicate a Scilla, Morano, Santa Severina e Tropea in Calabria. Poi c'è il ciclo abruzzese ispirato al suo viaggio in Abruzzi e Molise.  Si avverte in alcune incisioni sui paesaggi italiani, anche la lezione del nostro grande incisore Piranesi.
Scilla 

E ancora di più Escher fissa la sua attenzione sulle piccole cose trattati da architetture naturali "Soffione" (1943), "Scarabei" (1935) e Cavalletto (1935).

Nei suoi viaggi in Spagna Madrid, Toledo e Granada fu proprio l'Alhambra di Granada (famoso palazzo moresco del Trecento) colpirono nel profondo il giovane artista. Furono soprattutto i particolari arabeschi  (come quello sottostante) ed i motivi grafici ricorsivi e ricorrenti che adornano gli interni del complesso residenziale spagnolo a lasciare un'impronta profonda sulla fantasia di Escher, che avrà modo di rielaborarli nelle sue memorabili tassellazioni.




Snodo centrale della mostra è il momento della maturità artistica coi temi della tassellatura, delle superfici riflettenti. e degli oggetti che grazie al suo speciale soggettivismo diventano impossibili come la celebre "Mano con la sfera riflettente" (1935), quasi un'immagine simbolo del suo mondo geometrico-visionario dove spicca un suo autoritratto all'interno della sfera che riflette anche la sua stanza-studio (immagine in alto) mentre la sua mano all'interno risulta deformata "Altro mondo II" (1947) una xilografia costruita in tre blocchi ispirata al tema della relatività einsteiniana, della funzione di un piano che svolge contemporaneamente tre ruoli diversi. In una struttura cubica sono riuniti infatti tre differenti punti di vista su un mondo fantastico: quello orizzontale, quello dall'alto verso il basso e quello dal basso verso l'alto, in modo che l'orizzonte, il nadir, il punto di fuga delle verticali in basso, e lo zenit, il punto di fuga delle verticali in alto, coincidano.


Casa di scale

Magica, inquietante e  visivamente paradossale è "Relatività o Casa di scale" (1953) dove l'artista sembra quasi sfidare la legge di gravità, "Belvedere"  (1958), "Pozzanghera" (1952) riprende il tema delle superfici riflettenti: gli alberi  capovolti e riflessi in una pozzanghera, sono quasi più suggestivi di quelli veri.

Tre mondi


L'opera che prediligo (ma è opinione del tutto soggettiva e scegliere in mezzo a tanti capolavori è  del tutto arduo)  è  forse "Tre mondi" dove  l'acqua tremolante di uno stagno in autunno connette in maniera naturale tre componenti diverse: la prima sono le foglie cadute da un faggio che galleggiano verso un orizzonte ignoto e suggeriscono la superficie dell'acqua; la seconda, il riflesso di tre alberi in lontananza; quindi la terza, un pesce in primo piano, sotto il pelo dell'acqua. L'acqua ha la triplice funzione di superficie, profondità e riflesso del mondo soprastante presentando un intreccio di mondi reali e mondi riflessi, in cui il pesce e le foglie, rappresentati come oggetti "reali", si confondono con gli alberi riflessi, fino a indurci a chiedere che cosa è reale e cosa riflesso.

La Pozzanghera


La Metamorfosi I” e la "Metamorfosi II", e  "Metamorfosi III" realizzate dal 1940 al 1968 rappresentano una sorta di grande sintesi riassuntiva delle sue opere. Nel lungo pannello posto alla fine del percorso espositivo, le figure cambiano e interagiscono con le altre e a volte addirittura si liberano e abbandonano il piano in cui giacciono, in una lunga sciarada visiva dai molteplici significati.




In epoca di riproducibilità tecnica dell'arte, si è sviluppata in seguito una vera e proprio Eschermania di culto, ripresa nel cinema, nel fumetto, nelle copertine dei dischi, nella pop-art,  nella pubblicità e nei videoclip musicali.

David Bowie in "Labyrinth" con fondale ispirato a "La casa delle scale " di  Escher


I Rolling Stones chiesero di poter adottare i suoi disegni nelle copertine dei loro dischi, ma non fu loro consentito. Tuttavia molti degli effetti speciali cinematografici hanno ripreso  numerosi suoi motivi prospettici deformanti e distorcenti (è il caso del  film fantasy "Labyrinth" interpretato da David Bowie con fondale ispirato a "La casa delle scale"). 
Immancabile pertanto, una sezione speciale dedicata a quanto Escher è stato (e continua ad essere) influente nella modernità e postmodernità.




venerdì 14 ottobre 2016

Il mondo storto secondo Corona



Chi passa dalle parti di Erto e Casso, i due paesi al confine fra il Veneto e il Friuli, noterà che si tratta di una montagna povera, brulla fatta di case-fantasma di pietra. Casa rese ancora più spettrali dal fatto di essere in buona parte disabitate e dal fatto di essere raggruppate nei due villaggi della desolata valle del Vajont. Benché villaggi adiacenti, si piccano di parlare un dialetto diverso: a Erto si parla un ladino dolomitico, mentre a Casso, un alto veneto bellunese. Casso è ancora sotto la provincia di Belluno, Erto, sotto quella di Pordenone. Non ci sono più di un paio di bar e un punto ristoro. Stupiscono gli atelier di intagliatori di legno. Forse perché c'è tanto tempo da impiegare e chi resta non sa come ingannarlo, ma un po' tutti, da quelle parti, sono capaci di "intagliare" e di lavorare il legno. Nel video sottostante lo vedete alle prese con una delle sue imprese alpinistiche con un equipaggiamento del tutto minimalista e approssimativo.  Sono questi i paesaggi di Mauro Corona, scrittore, scultore in legno e alpinista, e qui, tutto parla di lui e dei suoi romanzi. Corona è un personaggio originale con l’immancabile bandana in testa sopra la folta chioma grigia,con quella faccia che sembra intagliata nella roccia delle sue montagne, e scrive romanzi distopici sulla fine dell' "uomo tecnologico" che non è più in grado di cavarsela con le proprie mani. 



Mi è capitato di leggere "La fine del mondo storto", il libro per il quale vinse il premio Bancarella nel 2011. Nel 2014 vince il Premio Mario Rigoni Stern. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue. Perfino in cinese e giapponese. 

Ma Corona non ha trascurato l'altra sua grande passione, l'arrampicata. Nel 1977 comincia ad attrezzare le falesie di Erto e Casso, oggi meta molto frequentata dagli alpinisti di tutto il mondo, proprio grazie a lui. In pochi anni scala le Dolomiti del Friuli, per poi spingersi fino in Groenlandia e in California sulle pareti della Yosemite Valley. Oggi diverse vie di scalata portano la sua firma. La sua passione per la scrittura nasce dagli articoli e reportage sull'alpinismo che inviò al Gazzettino. Poi da lì, passò al romanzo. E ai romanzi.

Ma vengo al suo  più famoso "Mondo storto", anche se di romanzi aventi per tema la montagna e le sue asprezze, o comunque la lotta tra l'uomo e la Natura,  ne ha scritti tanti.

Un brutto giorno il mondo cosiddetto "civilizzato" si sveglia e scopre che è esaurito il petrolio e tutti i suoi derivati, l'energia elettrica, e tutto quanto serve per riscaldarsi. L'inverno inclemente con il suo freddo e gelo, incombe con la penuria di viveri e di tutto quanto serve a rendere confortevole i focolari domestici; le città sprofondano nel buio, senza traffico né il consueto vociare della gente, né la musica che proviene dai locali a cui ormai siamo abituati. La repentina caduta di quel mondo, seleziona anche gli uomini non più abituati a procacciarsi cibo e legname dai boschi che ormai non vengono più curati. Pertanto, per poter sopravvivere, essi bruciano il mobilio delle loro case: scaffali, tavoli, panche, sedie, biblioteche e perfino enciclopedie e libri in uno scenario da incubo. La cosa fa riflettere il lettore al punto da domandarsi: che cosa risparmierei in caso di dure necessità come queste? Cosa brucerei per ultimo? Che cosa sacrificherei alle fiamme per primo? Ma di fronte ad un inverno glaciale, tutto diventa fatalmente "superfluo", fosse anche un amato pianoforte.


In questo spettrale scenario che falcia molte vite, gli uomini capiscono per forza di cose che se vogliono sopravvivere a questo inverno di carestia e di gelo, devono rifarsi agli antichi saperi degli antenati, seguire il loro viatico e i loro insegnamenti. Avi che erano in grado di procurarsi cibo e legna con le loro mani, curarsi con le buone erbe e le buone bacche ricavate dalla natura sapendole distinguere da quelle velenose; perfino i raffreddori, con le gemme di pino mugo. Saper accendere fuochi, imparare a catturare uccelli col vischio o a creare trappole per i caprioli con i rami piegati degli alberi.... Chi resiste in questa dura selezione naturale, rassomiglia molto ai superstiti attuali di Erto e Casso nella valle del Vajont: individui dai volti asciutti e duri come pietra che sembrano averci "il callo del vivere" - come scrive Corona ricorrendo a questa efficace espressione. La vita e le sue tribolazioni, le sue emergenze e imboscate repentine non fa loro paura, dato che ci hanno fatto il callo. Perciò vanno avanti, lenti e i longevi, e i più forti, lasciano i più deboli sul terreno continuando il loro calmo avanzare. Tuttavia le difficoltà estreme, riescono a compiere il miracolo di ricostituire le comunità perdute. Di rendere gli uomini più uguali e solidali nel momento del bisogno. Ai rumori molesti dei decespugliatori e dei rasa-erba che vanno a elettricità, si sostituiscono i gesti solenni e uguali delle ranze usate per falciare l'erba a mano o delle piccozze al posto delle motoseghe per abbattere gli alberi. Arriverà, fra mille peripezie, la tanto agognata primavera. Ma qui non posso anticipare il finale per chi non avesse ancora letto il libro, dato che il lieto fine non è assicurato. E il destino degli uomini resta sospeso e incerto, a causa dei loro egoismi e della loro avidità.


Non mancano critici e detrattori che rimproverano a Mauro Corona uno stile troppo vernacolare e colloquiale. Ma a mio avviso è del tutto funzionale al racconto, alle tematiche che affronta, agli ambienti e ai paesaggi che ha vissuto e che sa descrivere in modo  vivido senza dover ricorrere a orpelli letterari.



    Altri romanzi di Mauro Corona
    L'ombra del bastone, Milano, Mondadori,
    I fantasmi di pietra, Milano, Mondadori,
    Storia di Neve, Milano, Mondadori,
    Il canto delle manére, Milano, Mondadori,
    Come sasso nella corrente, Milano, Mondadori,
    La voce degli uomini freddi, Milano, Mondadori,
    La via del sole,Milano, Mondadori